Questo il nome del soldato giapponese morto qualche giorno fa a 91 anni in un ospedale di Tokyo. Sperduto nelle giungla delle Filippine alla fine del 1945 con altri tre compagni non credette alla fine della guerra e si arrese solo nel 1974 quando un suo superiore di allora, il maggiore Taniguchi inviato dal governo di Tokyo gli comunicò l’avvenuta fine della guerra.L’irriducibile soldato aveva mantenuto fede al giuramento prestato.
La notizia in sé è particolare per la sua storia.È morto un uomo, un uomo molto vecchio,espressione di un mondo e di una cultura da risultarci incomprensibile.
Culture perdenti che non si sono fatte universali.
Ma ogni cultura che si universalizza perde la propria particolarità, si ammala e muore.
È quanto rischia oggi la nostra cultura, vincente e che si è fatta universale.
Così è avvenuto con tutte quelle che abbiamo distrutto, assimilandole a forza, ma anche con la nostra, con la sua vocazione all’universalità. La differenza è che le altre culture sono morte della loro particolarità una bella morte in fondo- mentre noi moriamo della perdita di ogni particolarità, dello sterminio dei nostri valori -che è invece una mala morte.
Quindi ha avuto una buona morte, era un guerriero. Chi ha avuto in sorte di vivere in questa fase storica, deve sviluppare le qualità del guerriero: l’onore, la forza, il coraggio, l’audacia e lo sprezzo del pericolo; deve essere capace di lottare a lungo, per tutta la vita, senza aspettarsi tregue o concessioni, senza sognare facili soluzioni di compromesso, quando la stanchezza e la solitudine si faranno maggiormente sentire. La pensava così anche Ernesto Che Guevara.
Sì, anche la solitudine: perché pochi sono quelli che aprono gli occhi e si rendono conto di come stanno le cose; la grande maggioranza degli uomini e delle donne seguiteranno a pascersi di erba come le mucche, ruminando soddisfatti, come se tutto andasse nel migliore dei modi; non ascolteranno i gridi d’allarme e anzi si scaglieranno contro chi li metterà in guardia.
E tuttavia sarà necessario sviluppare anche un’altra qualità, senza la quale la forza e il coraggio del guerriero sono inutili: la capacità di conservare la speranza. Senza la dimensione della speranza, anche la lotta più tenace e coraggiosa è condannata alla sconfitta: perché la vittoria non consiste nel prevalere sui nemici, ma nel trionfare della tentazione di abbandonarsi alla disperazione. Solo colui chi sa sperare, nonostante tutto e tutti, è un autentico guerriero: perché dopo il tempo della lotta viene il tempo della ricostruzione; e guai a quella società che non trovi in se stessa il tipo umano che, dopo aver lottato, sappia anche ricostruire. Dipenderà da lui, comunque, la lotta sarà finita, se una nuova alba sorgerà a illuminare il mondo.
Chi sa dirmi com’é il paradiso per gli eroi giapponesi?