NOTE SULL’ESAME DI STATO

Tra gli indizi che definiscono la decadenza delle civiltà (o degli Stati, se tale termine è applicabile alla situazione odierna) sta la misura dell’indulgenza con cui guardano all’educazione delle giovani generazioni. Quanto meno chiedono loro, cioè quanto meno le attrezzano al futuro, tanto peggiore sarà il futuro medesimo.

La stucchevole disputa che ancora una volta nel mese di  luglio si è accesa sull’esame di Stato conclusivo del ciclo secondario superiore può anche servire a capire con ragionevole approssimazione se questo Paese si salverà, e ciò anche senza essere convinti  dell’utilità presente dell’esame di Stato. Del quale, se vogliamo capirne le ragioni per comprenderne la natura, dobbiamo ricordare che nacque nel pensiero di Croce e Gentile come funzione di controllo della scuole seminariali, nello spirito del giovane Stato unitario; non a caso faccia opposta dell’altra più ampia soluzione, quella concordataria, che guardava in tutt’altra direzione. Oggi, tuttavia, l’Esame di Stato in Italia non sa più controllare neanche se stesso, con ciò rivelandosi come macchina mangiasoldi e pura funzione consolatoria di un esercito di futuri disoccupati.

Ma essendo al di sopra di ogni sospetto per aver sempre predicato l’inutilità ai fini diagnostici e prognostici dell’esame  di Stato conclusivo del ciclo superiore (con ciò attirandoci accuse di liberalliberismo, quando invece si trattava piuttosto di empatia con l’anarca jüngeriano), vogliamo invece vedere se non sia il caso di capire gli eventuali fini educativi (absit iniuria verbis !) del vecchio Esame di Maturità, perfino magari come riformato nel 1969.

Nel caos indistinto del ’68 e nella stupefatta attesa da esso generata (si sa, poi a tutto ci si abitua) la mossa politica vincente fu una radicale trasformazione dell’Esame di Maturità fino ad allora in vigore, orientata ad andare incontro a quelle giovani generazioni – non ancora maggiorenni per legge – che riempivano di manifestazioni le strade d’Italia e d’Europa. Qualcosa che poteva assomigliare agli esami abbuonati per meriti combattentistici alla generazione di Vittorio Veneto. Ma se osserviamo più da vicino l’esame uscito per decreto-legge del  ministro Fiorentino Sullo il 15 febbraio 1969 in via sperimentale per due anni  e prorogato da una successiva legge, la 146/1971 (ministro Misasi) fino ad una futura  riforma (durò trent’anni), ne vediamo molte positività rispetto a quello voluto dal ministro Berlinguer, nell’a.s. 1997-98, che è sostanzialmente quello attuale, anche se in qualcosa, incredibile dictu, sono perfino riusciti a peggiorarlo.

A memoria storica, occorre dire che Berlinguer cadde per una delle poche cose buone che stava tentando di fare, introdurre la valutazione e la progressione per merito nelle carriere dei docenti. Passino pure gli studenti asini, purché asini siano anche i docenti; il Pci o Pds o quel che era, che aveva ed ha nel corpo docente uno dei suoi più consistenti bacini elettorali, toccò con mano la reazione e sperò di salvarsi regalando la testa di Berlinguer agli scontenti:  nel 2001 le cose non andarono propriamente così, ma, come direbbe Kipling, questa è un’altra storia.

Torniamo dunque all’Esame di Maturità dell’a.s. 1968/69. Il tratto distintivo fondamentale della riforma stava nella riduzione dell’esame  a due prove scritte e ad una prova orale su due materie: l’abolizione della sessione autunnale è piuttosto una conseguenza del pensiero sotteso all’innovazione, e cioè alla valenza pedagogica della prova: “l’esame di maturità ha come fine la valutazione globale della personalità del candidato, considerata con riguardo anche ai suoi orientamenti culturali e professionali” (dall’art. 5 del D.L. 9/1969).  Certo, se confrontiamo questo linguaggio con quello del 1997, quando cambia il nome (Esame di Stato) e cambia la finalità (verifica e certificazione delle conoscenze, competenze e capacità), ci accorgiamo che il tempo è passato. Ma ce ne accorgiamo anche in questi giorni, quando, in margine alle polemiche su i test di ammissione a Medicina e alla petizione on-line per l’introduzione dell’educazione sentimentale nella scuola (“1oradamore”, sic), riaffiorano i temi dell’empatia e dell’intelligenza emotiva: e dove le mettiamo, tra abilità e competenze e capacità, che già ci assillano per essere, ahimè, come sono, poco chiare e poco distinte?

Ma torniamo al’analisi del testo del 1969 e delle sue applicazioni deviate, dovute sostanzialmente alla cultura tollerante e familistica dei docenti, tollerata, se non incoraggiata, dal Ministero di riferimento, tutti intenti a perseguire obiettivi e finalità decisamente contrastanti con la civiltà del merito.             Basti pensare al percorso applicativo dell’art. 6, di cui ci interessa in particolare il seguente passo:

” Il colloquio, nell’ambito dei programmi svolti nell’ultimo anno, verte su concetti essenziali di due materie scelte rispettivamente dal candidato e dalla commissione fra quattro che vengono indicate dal Ministero entro il 10 maggio e comprende la discussione sugli elaborati.

A richiesta del candidato, il colloquio può svolgersi anche su altra materia di insegnamento, in aggiunta a quelle di cui al secondo comma. In tal caso il presidente della commissione può nominare, ove occorra, un membro aggregato, che ha solamente voto consultivo”

E’ ben noto – e non sfuggiva agli Ispettori del tempo, che anche la seconda materia dell’orale, dopo i primi anni, veniva nella stragrande maggioranza dei casi tacitamente attribuita secondo i desiderata del candidato, veicolati dal docente rappresentante di classe, e che molto infastidiva la commissione il lavoro eccedente nel caso un candidato scegliesse in aggiunta un’altra materia per il colloquio; si finì per sconsigliarglielo caldamente. Restava tuttavia il fatto positivo che attraverso l’esposizione e l’analisi dei “concetti essenziali” delle due materie oggetto d’esame ci fosse la possibilità di saggiare a sufficienza lo spessore e l’organicità della preparazione dello studente.

Non si può dire altrettanto della riforma dell’esame introdotta dal ministro Berlinguer con la legge n. 425 del dicembre 1997. Intanto il recupero nella prova orale di un colloquio su tutte le materie dell’ultimo anno è pressappoco una farsa che tenta di riproporre antiche severità negli studi: le tre/quattro prove scritte e i due giorni di colloqui dell’esame riformato nel 1951 condensati in tre prove scritte (e vedremo come) e un turno orale “su argomenti di interesse multidisciplinare attinenti ai programmi e al lavoro didattico dell’ultimo anno di corso” (con gli approfondimenti personali, le cosiddette “tesine”, che successive prescrizioni cercheranno di contenere nel loro debordare) inducono alla superficialità e all’irrilevanza.

Ma dicevamo della terza prova scritta che, predisposta dalla commissione, dovrebbe certificare varie abilità e competenze, tra cui l’uso della lingua straniera: è soprattutto per questa prova (meglio definita dal Decreto Ministeriale 8 novembre 1999, n. 520) che cominciano a far capolino comportamenti che finalmente verranno identificati quando una più vasta platea di soggetti terzi (l’Invalsi, gli organismi internazionali, etc.) e non più soltanto il Ministero P.I. si occuperanno di prove condotte per rilevare nel modo più oggettivo possibile una serie di dati valutativi del percorso scolastico. Fin da subito infatti la terza prova è avvelenata da comportamenti che ormai si è soliti definire in inglese perché in italiano suonerebbero come parolacce, cheating e teaching to test:  cioè “imbrogliare” e “insegnare [strumentalmente] in funzione della prova”, relativamente a comportamenti indesiderabili dei docenti, in ciò agevolati dall’aumento del numero dei commissari interni, fino alla inopportuna decisione del ministro Moratti di formare commissioni tutte costituite da membri interni, con presidente esterno. Decisione quest’ultima forse non estranea ad un particolare favore verso le scuole paritarie, anche se col ministro Fioroni si tornerà alle commissioni miste e col ministro Gelmini a qualche regola di recinzione e contenimento della deriva buonista (limiti per l’ammissione all’esame, corrispondenze più strette fra curriculum e voto d’ esame).

Ma tutti questi rimedi sono spesso vanificati dai docenti, con l’alterazione dei parametri per l’ammissione e laddove i docenti non arrivano, se il giudizio d’esame non è gradito, anche se positivo, interviene la protesta dei genitori e il ricorso ai Tribunali Amministrativi.

E  qui si apre l’ultimo capitolo della storia, forse il più interessante per le ricadute sociali:  la triangolazione scuola – genitori – Tribunali. Questi stakeholders che, avendone un qualche interesse, devono sempre avere voce in capitolo, come se non fosse proprio il non essere “interessato” ad una questione il principale titolo di merito per poterne giudicare. Il docente e la scuola, infatti, possono ricorrere al Consiglio di Stato contro una sentenza avversa soltanto attraverso il Ministero e quindi l’Avvocatura dello Stato, che quasi sempre con molta trascuratezza persegue quello che dovrebbe essere il suo interesse, cioè l’imparzialità del giudizio.

Ed un altro interessante aspetto si apre a questo proposito, la faglia del discrimine sociale: chi sta di qua e chi sta di là, chi sa come fare e può fare per farsi dare ragione e chi deve comunque accettare un giudizio che bene o male reputa ingiusto.               Sentenze che gridano vendetta  almeno davanti alle persone di buon senso, come il caso di cui si è occupato recentemente Belardelli sul Corriere della Sera, sono la prova più chiara di come i tribunali entrino nel merito del giudizio scolastico, sostituendosi in modo cervellotico da un lato agli esaminatori, dall’altro, spesso, al legislatore.                Dato che ciò non potrebbe avvenire se i giudici non si sentissero incoraggiati e blanditi da un’opinione pubblica corriva al lieto fine (che sembra essere “più voti ottimi per tutti”), ci piace spendere ancora qualche parola per annotare che di questi tempi i dirigenti scolastici –come appare dalle cronache giornalistiche- risultano avidi di “100 e lode”, frustrati più dei genitori se la lode manca, e dicono che con criteri restrittivi si correrebbe il “rischio di diradare le eccellenze e privare i ragazzi di aiuti fondamentali che le università più innovative concedono ai migliori studenti”.  Messa in questi termini la questione, davvero gli esami sono una sofferenza inutile, se si pensa che il voto debba essere comunque buono: ci chiediamo come questa gente poi si spieghi la vastissima disoccupazione giovanile in presenza di un aumento della scolarità.

Con ciò torniamo a quello che dicevamo all’inizio: quale il valore diagnostico e prognostico dell’esame finale, quale il senso del buonismo dilagante? La perdita dei ruoli di genitori e docenti nella loro valenza funzionale è causa della perdita delle capacità di autoaffermazione nelle giovani generazioni.     Vogliamo perciò concludere con due argomenti propositivi, che riguardano non la piccola disputa “esame si, esame no” –niente affatto risolutiva del problema- ma attengono ad un cambiamento di mentalità, necessario se si vuole incidere sul reale: : agire sulle modalità con cui  offrire motivazioni ai giovani, agire sui contenuti di tali motivazioni.

Da troppo tempo in Italia  la scuola non è più quel potente agente di mobilità sociale che giustificava la sua obbligatorietà: mezzo di nazionalizzazione delle masse, ma anche garanzia di un progressivo miglioramento di vita materiale e spirituale.  Da quando (il fenomeno non è forse recente, ma di recente si è manifestato in tutta la sua crudezza) le famiglie e gli studenti considerano ottima la scuola che dà voti ottimi, in ciò spinti da un vecchio carattere nazionale che non  pretende la verifica dei risultati, ma vede la valutazione come assoluzione –non sapendo cosa sia una seria autovalutazione – assistiamo ad un processo involutivo di cui poco ci può consolare il fatto che qualche altro caso in Europa si presenta altrettanto problematico.        Il confronto più serio è quello che si può fare con paesi emergenti (o riemergenti): senza farsi sorprendere dalle esagerate generalizzazioni di Amy Chua , la mamma tigre sinoamericana il cui ruggito è partito dal Wall Street Journal nel 2011, preoccuparsi per l’autostima dei figli può solo voler dire che li si abitua a non arrendersi davanti agli ostacoli e che non si è iperprotettivi nei loro confronti.

Altrimenti sarà meglio rassegnarsi ad un declino ancora più rapido per l’Italia che per altri paesi europei.                 Questo perché nel nostro sistema scolastico ed educativo sono presenti elementi di fragilità che possono incidere gravemente sul complesso economico e sociale,  e ciò si rapporta ai contenuti delle motivazioni che offriamo ai giovani per impegnarsi.                   Nonostante tutto quel che si dice, nella scuola secondaria italiana continua inarrestabile un processo che in gergo si chiama “licealizzazione” e che fondamentalmente è un progressivo scivolamento verso l’indistinto e l’inefficace in tutti i cicli e gli indirizzi scolastici. Il mancato riconoscimento, e conseguente valorizzazione sociale delle diverse vocazioni comporta da un lato la ricerca di sbocchi universitari per niente congrui rispetto alle attitudini: da qui anche il problema dei corsi universitari a numero chiuso e dei test di ammissione, spesso più simili a una lotteria. Qualunque forma di eliminazione dell’esame di Stato presupporrebbe un attrezzarsi ancora più sofisticato da parte delle università, che non sembrano ancora essere pronte.

La “licealizzazione” selvaggia ha comportato e comporta, infatti, la dissipazione di aspirazioni ad una più concreta applicazione tecnica, che spesso nei giovani sono prevalenti; manca del resto ancora all’orizzonte del sistema italiano l’equivalente della Technischehochschule, presente solo in fase sperimentale in alcune realtà locali. E’ questo, del resto, l’annoso problema dell’alternanza scuola-lavoro, talvolta tentata anche in qualche liceo, ma raramente esplicata con efficacia.

                                                                                              Lucia Marrone

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