L’eredità di Pasolini: “Solo nella tradizione è il mio amore”
Pier Paolo Pasolini è una presenza latente nella scuola che frequentò. In quelle aule del liceo Galvani, insegnandoci, il tempo invita a sottrarsi dalla goffaggine delle appropriazioni indebite, così come a maturare un giudizio non scontato e per questo aderente alla sua sofferta esistenza e contraddittorietà del pensiero. Una dialettica negativa a partire dalla sua morte, coerente a ritroso alla sua vita, scandalosa e disperata quanto la desolazione della modernità sofferta. Nei suoi film e nei suoi scritti, Pasolini prefigurò e sceneggiò il suo trapasso, un nesso sacrificale tra violenza e sacro, come emancipazione ultima e disperata da una “brutta, triste, piatta libertà”.
Tradizione e pauperismo di “Un solo rudere”:
«Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle Chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli.
Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno d’ogni moderno a cercare i fratelli che non sono più».
Negli appunti dell’ultimo romanzo incompiuto Petrolio, scrive del divorzio dalla visione vettoriale del divenire: «Su ciò si era fondato tutto il razionalismo occidentale moderno, proprio mentre la scienza dimostrava che il tempo non era affatto fondato sull’unilinearità e successività e anzi addirittura non esisteva, tutto essendo compresente (come già avevano insegnato le religioni dravidiche)». Così come in una ultima delle sue Lettere corsare, scrive della lettura persuasa di uno dei più eminenti pensatori tradizionalisti: «Dal testo di Ananda Coomaraswamy, veniamo a sapere una cosa sorprendente. Non è vero che un individuo sia legato alla sua casta dalla vita alla morte. Egli può uscire da questo determinismo sociale – che a noi sembra così imperdonabilmente ingiusto – attraverso il «risveglio». Il Risvegliato, che giunge al quarto e ultimo grado di conoscenza, cioè all’apatia e alla morte in vita, e vive assolutamente privo di tutto, può provenire dalla casta dei regnanti o dei sacerdoti, ma può provenire anche dalla casta dei paria».
Nella sua ultima poesia “Saluto e augurio”, presagisce l’ineluttabile e si appella:
«Difendi i paletti di gelso, di ontano, in nome degli Dei, greci o cinesi. Muori d’amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi.
Dentro il nostro mondo, dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, o un soldato senza violenza».
La testimone che trovò il suo corpo nella desolazione lacerata nella periferia dell’umanità asserì «Pensavo che fosse immondizia». L’inconsulto di una catarsi.